Sappiamo cosa abbiamo perso ma non sappiamo qual è il mondo nuovo

Quella che segue è una conversazione con Francesco Pizzetti, presidente dell’Autorità garante dei dati personali pubblicata su repubblica e curata da Vittorio Zambardino.  La trovo interessantissimo e ne consiglio la lettura a tutti coloro che si interessano al fenomeno dei social network e alla nuova identità digitale:

Professore, partiamo da Facebook. C’è un servizio che ha 11 milioni di utenti in Italia, che sospende le persone con messaggi in inglese cui non esiste un reale diritto di replica e di autodifesa, che ha “termini d’uso” scritti parzialmente in inglese. Lei non pensa che questa azienda dovrebbe avere un punto di rapporto con gli utenti del paese, qualcosa come un ufficio nazionale? Si fa fatica anche a trovare quello europeo…

Partirei dal fatto che la rete ha introdotto una nuova realtà. Ha duplicato la nostra esistenza, creando una dimensione non locale e “virtuale”, che ha regole del tutto diverse da quelle che vigono nella realtà in cui siamo vissuti per migliaia di anni. E’ però una dimensione che influisce – lo vedremo –  sulla “vita reale”.  E la globalizzazione, che internet ha reso possibile e che con internet ha interagito, ha creato un vuoto di regole, di autorità regolatrici sovranazionali e soprattutto un vuoto di consapevolezza nelle persone. Se guardassimo sotto questo aspetto alla crisi economica mondiale, potremmo trarne indicazioni molto utili…

E’ una dimensione problematica interamente nuova, che coinvolge il diritto, l’etica, il costume. Ovvio che si esplichi in alcuni fenomeni come i social network che sono globali in modo costitutivo. Contratti in lingue che le persone non conoscono, azionabili solo presso tribunali lontanissimi, ma anche condotte molto nuove, nelle quali le generazioni si separano. Pensi che contraddizione: ci sono giovani che posseggono la tecnologia ma sono del tutto indifesi nell’esposizione di sé e della propria vita, e “immigranti digitali” che per età potrebbero aiutarli ad essere più consapevoli, ma che non hanno le conoscenze per comunicare con loro in modo adeguato

Lei insiste molto sulla formazione del pubblico, delle persone. L’Autorità ha pubblicato un vademecum sui social network che andrà anche nelle scuole. Ma le faccio il caso di certe applicazioni Facebook che si presentano sotto l’aspetto del gioco, dell’intrattenimento, del test, che prelevano grandi quantità di dati, destinati ad essere usati successivamente. Come si regola l’Autorità, come si regolano le Autorità degli altri paesi su questo punto?

L’anno scorso è stata varata la “Carta di Roma” sui social network, un documento formale, approvato da tutte le autorità garanti. Propone una serie di raccomandazioni che poggiano su due concetti: è necessaria una comunicazione chiara agli utenti, ma è altrettanto necessaria la consapevolezza da parte delle persone della complessità del mezzo che stanno usando.

Dopodiché il problema che io sento è il pericolo di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il pericolo cioè che per normare una dimensione che sfugge ad ogni definizione nota, si adottino regole che limitano in modo illegittimo la rete dal punto di vista della libertà degli individui. Anche nel modo di enunciare il problema c’è questa contraddizione tra un modo di ammonire e avvertire sui pericoli della rete, che può somigliare al genere narrativo dell’orco delle favole, e dall’altra il permanere di un far west dove i più deboli sono privi di tutela.

Ma lei sembra più preoccupato del processo generale…

Viviamo una novità assoluta. Una realtà che si dematerializza e si trasforma solo in dati e dove, quindi, il controllo di questi dati è fondamentale. Allo stesso tempo, ci troviamo a non avere alcuno strumento per esercitare questo controllo.

Sono molto impressionato, ad esempio, dalla cancellazione della distinzione tra passato, presente e futuro. Nasce una nuova linea temporale, dove passato presente e perfino il futuro si mescolano senza distinzione. Dove informazioni passate possono essere presentate, e prese in considerazione, prima di altre più recenti e corrette. Dove l’ordinazione di questi dati ubbidisce a criteri che non sono quelli dell’esattezza e della fedeltà.
Questa è una dimensione nuovissima, l’umanità non l’ha mai vissuta. Pensi al concetto di “rifarsi una vita” e a quello di autorappresentazione di sé.  Una volta cambiavi paese, se ci riuscivi perfino l’identità, e avevi una ragionevole possibilità di rifarti una vita. Con internet è impossibile.
E ancora: io mando un curriculum al mio datore di lavoro, penso che questa mia presentazione basterà perché mi si valuti correttamente. Macché:, il datore di lavoro cerca con i motori e può trovare cose, magari remote nel tempo, che mettono in discussione l’immagine che ho dato di me. Ci sono casi di giovani che si vedono negare il lavoro per aver scritto di aver bevuto un bicchiere di troppo alla festa di laurea. Non credo che questa consapevolezza sia diffusa.

E “terrificante” e “entusiasmante” allo stesso tempo, è una sfida incredibile. Oggi è il mondo del diritto, forse il mondo dell’etica da ripensare. Di certo il mondo delle relazioni individuali. Cosa vuol dire vivere in un mondo in cui io non sono più padrone di rifarmi una vita? Cosa vuol dire vivere in un mondo in cui passato presente e futuro sono su una linea temporale unica?
Di certo significa che stiamo perdendo la possibilità di essere padroni della nostra autorappresentazione. Con un certo uso del motore di ricerca, viene meno il principio di finalità del dato. Io  consento all’uso dell’informazione su di me solo per certe finalità e in base alla rappresentazione che voglio dare di me nei diversi contesti. E invece rischio magari di vedermi rappresentano davanti a una comunità professionale attraverso un’informazione fornita ad altri o per un comportamento sbarazzino di dieci anni prima.

Ora fino a questo punto della storia noi abbiamo vissuto in una dimensione in cui era possibile nascondersi, selezionare le informazioni da far conoscere e quindi autorappresentarci. La perdita di questa dimensione non è ancora chiara a tutti noi: l’autorappresentazione non è più nelle nostre mani. Per citare Bunuel: che fine ha fatto il “fascino discreto della borghesia” in internet?

Ma questo sposta la sede per le autorità della privacy: da Roma a Bruxelles, a New York, dove?

Col passaggio dalla realtà “reale” a quella virtuale le autorità per la privacy hanno completamente cambiato ruolo…

Scusi l’interruzione, ma se le propongo come tema che forse sarebbe meglio chiuderle?

Ci sto arrivando…le autorità si sono trovate sulla frontiera più moderna. Perché devono creare la precondizione per una vita libera e democratica. Una volta si trattava di garantire la sicurezza fisica delle persone come precondizione della vita sociale e civile, della libertà. Nella realtà virtuale la chiave è la sicurezza dei dati che circolano sulla rete e sui dati individuali. Il compito è spaventosamente difficile …
Sappiamo cosa abbiamo perso ma non sappiamo qual è il mondo nuovo. In questa situazione c’è la tendenza, tra i legislatori, a trasferire le norme della realtà “reale” sulla realtà virtuale… come se bastasse…

Certo, avessimo  magari un problema e ci fosse bisogno di “una” soluzione sarebbe più semplice. Ma siamo di fronte al cambiamento di una dimensione della vita umana che incide nel rapporto fra uomo e mondo, fra uomo e natura. Non capisco gli uomini politici che non colgono fino in fondo questa complessità, che può far tremare le vene e i polsi, che ci fa sentire indifesi.

I motori di ricerca: ci sono tempi di conservazione dei dati che sono assai discutibili. Ma ancora più dicutibile è la tendenza ad accettare le autodichiarazioni dei motori sulla correttezza delle loro procedure sull’uso dei dati… Penso a certe affermazioni di Google sul funzionamento di AdSense. Bisogna accontentarsi delle loro parole?

Sulla conservazione dei dati c’è stato un lavoro a livello europeo, Google ha preso degli impegni sui tempi di mantenimento. E’ vero, continuiamo ad aver fiducia nelle dichiarazioni di queste strutture, ma non sfuggo al problema se la metto in altri termini: è più pericoloso cosa può sapere Google di me o cosa può sapere il mio vicino di casa su di me tramite Google?
Possiamo  anche preoccuparci della “profilazione”, ma perdiamo di vista l’impatto sociale del mezzo. Cosa succede quando un professore fa lezione ma i suoi studenti possono vedere via Google cose relative alla sua vita passata che mettono in crisi il suo “standing” e il suo credito professionale. Non c’è un problema di ordinazione dei risultati? Di criteri ordinativi che non possono solo ubbidire al marketing o alla popolarità?

Temo che su questo non ci sia autorità di privacy che tenga
Invece se non vogliono avere un ruolo burocratico, le autorità possono fare molto per la consapevolezza delle persone. Sarebbe abbastanza facile mettersi a fare i controllori delle policy e delle pratiche di profilazione, ma il fulcro del problema non è questo.

fonte: http://zambardino.blogautore.repubblica.it

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